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Le promesse degli anni Sessanta

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S i può parlare degli anni Sessanta salvandoli dal disprezzo (“I punk disprezzavano gli anni Sessanta perché erano ‘sdolcinati’, la destra thatcheriana riteneva che fossero marci, negli anni Novanta poi sono stati liquidati come naif”) e  evitando al contempo il lifting riabilitativo che produce “l’immagine patinata di un periodo divertente, vivace, scoppiettante, da rievocare con nostalgia al momento più opportuno”? Sheila Rowbotham, nel suo libro La promessa di un sogno (recentemente tradotto da Treccani, l’editore di questa rivista) ci riesce, e per farlo impiega la pratica femminista del partire da sé. “Per sua natura – scrive- una narrazione personale è, ovviamente, parziale, ma può anche fornire nuove interpretazioni perché ci permette di osservare gli eventi da un punto di vista inedito”.

Quando ero bambina, ero particolarmente affascinata da una pubblicità della Guinness. Sulla schiuma densa di due bicchieri di birra erano stati disegnati due visi. Uno diceva all’altro: “Non ti voltare, ma penso che stiamo per essere inghiottiti”. In qualche modo, ora, riesco a sentire la stessa ansia. Com’è accaduto a molti della mia generazione, ho l’impressione che i miei ricordi di quegli anni siano stati inghiottiti più volte. Questo scollamento tra ricordo e interpretazione non è solo un’inevitabile conseguenza del passare del tempo, ma nasce dal fallimento stesso di quella promessa che, a seconda dell’occasione, è stata giudicata ridicola, infelice, assurdamente utopica, austera o immatura. (…) Condannati e/o idealizzati, gli anni Sessanta restano, comunque, quel decennio controverso che non lascia spazio al compromesso, o lo ami o lo odi, e questa dicotomia, che decontestualizza la nostra esperienza di allora, inevitabilmente la distorce, perciò questo è un libro che si rifiuta di essere “a favore” o “contro”.
  

Vorrei cominciare parlando del titolo, La promessa di un sogno. Esprime un senso di rimpianto o di delusione? Come l’hai scelto?

Ho tratto il titolo dalla citazione di una lavoratrice che avevo letto in un rapporto del Trades Union Congress. Anni dopo, ho incontrato quella donna in Irlanda e mi ha detto che la citazione completa era “vogliamo più di una promessa di un sogno”, in riferimento alla parità di genere. Ma suppongo che il titolo catturi la sensazione che quei ricordi fossero fugaci. Quindi, no, non volevo esprimere rimpianto o altro, solo il tentativo di toccare alcune cose che sembravano essere svanite dalla memoria. Quando stavo scrivendo il libro, alla fine degli anni Novanta, insegnavo all’Università di Manchester ed ero in contatto con giovani donne che non erano affatto interessate al femminismo, anche se alcune erano coinvolte nei movimenti contro la disuguaglianza globale. Avevo la sensazione che gli anni Sessanta e i nostri sentimenti al riguardo fossero piuttosto sfuggenti per loro e desideravo comunicare qualcosa su come e perché siamo state coinvolte nella creazione del movimento di liberazione delle donne.

Quali ostacoli hai incontrato nella scrittura di questo libro?

Quando ho scritto La promessa di un sogno, all’inizio non riuscivo a ricordare le cose. Prendevo brevi appunti in un quadernino. Poi ho iniziato a sfogliare libri, articoli e rapporti dell’epoca, e i ricordi hanno iniziato a tornare. Ho anche parlato con persone coinvolte in quel periodo e ho imparato che si possono avere memorie fallaci. Chiedi a qualcuno e ti dice una cosa, chiedi a qualcun altro e se ne ricorda un’altra. Ma ho anche dovuto trovare una nuova forma di espressione. Come storica, mi è stato insegnato a mettere da parte la mia esperienza personale e ad entrare in quella degli altri. Così, alla prima stesura, ho seguito l’impulso di citare altre persone per far emergere il fermento culturale, il dibattito che era in corso negli anni Sessanta tra i giovani uomini e le giovani donne. La mia agente letteraria, che a sua volta era stata coinvolta nel movimento delle donne, continuava a rimandarmi indietro il manoscritto, dicendo: “no, tu non ci sei dentro”. Mi ci sono voluti tre tentativi prima di considerare il lavoro finito, perché ho prima dovuto liberarmi di questa tendenza a scomparire. È stato molto diverso rispetto all’esperienza di scrivere “di Storia”, quando sei presente come individuo con tutte le tue idee e sentimenti unici, ma li controlli.

Le relazioni sono una parte significativa della tua ricostruzione. Come hanno influenzato il tuo impegno intellettuale e politico?

Ho frequentato una scuola femminile, un collegio metodista sulla costa dell’East Yorkshire nel nord dell’Inghilterra (un freddo cane!). La maggior parte delle studentesse erano piuttosto convenzionali; ci si aspettava che le ragazze imparassero la dattilografia o la cucina. Le ragazze con interesse per lo studio erano destinate a diventare insegnanti. Pochissime di noi sono rimaste per andare all’università. Così eravamo piuttosto isolate e ribelli, quindi parlavamo e leggevamo molto.  Dopo il collegio, ho studiato in un college femminile a Oxford, e lì, di nuovo, ho stretto amicizie significative, alcune delle quali sono ancora nella mia vita.
Guardando indietro alla fine degli anni Cinquanta e all’inizio degli anni Sessanta, molto prima che ci fosse un movimento di liberazione delle donne, posso vedere come io e molte delle mie amiche eravamo accomunate da un senso di dissenso. Non sapevamo dargli un nome, ma eravamo consapevoli che qualcosa non andava. Insomma, avevamo il voto e ci sentivamo fortunate di poter andare all’università, ma incontravamo atteggiamenti ostili da parte di alcuni uomini. Anche le relazioni sessuali erano piene di contraddizioni perché l’ipocrisia era pervasiva. Molte giovani donne istruite non avevano fiducia in se stesse quando si trattava delle idee o del lavoro. Inizialmente ho visto tutto questo come un problema individuale o una questione culturale e ho iniziato a cercare alternative…
Già a scuola mi ero interessata a scrittori come il romanziere E.M. Forster, l’autore di Camera con vista, che, in Gran Bretagna, era critico nei confronti delle relazioni personali convenzionali. Ed Edward Carpenter, che fu uno dei primi a scrivere di omosessualità.
Poi, è arrivato lo slogan “il personale è politico” dalla nuova sinistra americana. In Gran Bretagna, molte donne nei gruppi di sinistra erano sospettose e diffidavano di queste idee. Penso che in gran parte lo ritenessero un diversivo, anche se alcune delle donne socialiste più anziane temevano che ci fosse un pericolo reale nel fondere vita privata e pubblica e che la vita personale e intima sarebbe stata inghiottita da una sorta di discorso pubblico.  Ma le donne socialiste che come me erano coinvolte nel movimento di liberazione delle donne trovavano preziosi i piccoli gruppi di discussione in cui le donne parlavano delle proprie esperienze, perché ci permettevano di vedere che la nostra insoddisfazione non era solo soggettiva ma anche sociale. Gli americani li chiamavano “consciousness raising groups” (gruppi di autocoscienza) e dal 1969 anche noi abbiamo formato gruppi simili, oltre a fare campagne per cambiamenti esterni.

E come è andata?

Parlavamo di sentimenti, delle reazioni alle cose dette dalla gente o degli incontri avuti con gli uomini, e cominciavamo a trasformare quelle esperienze individuali in qualcosa che poteva essere espresso in un contesto più ampio. Venivano fuori, ad esempio, tutti i tipi di paure relative alla gravidanza perché avevamo una pessima informazione sulle relazioni sessuali e sulla contraccezione. Sarà stato lo stesso in Italia, immagino. Eravamo ridicolmente ignoranti, davvero, ma per tornare alla tua domanda sulle relazioni, avevamo già creato queste forti amicizie dove potevamo sviluppare la fiducia tra donne per parlare apertamente delle nostre ansie. Tuttavia, continuava ad essere complicato parlare di relazioni intime, anche all’interno dei gruppi di autocoscienza. Era ancora preferibile aprirsi su questioni specifiche con amiche che avevano opinioni simili. Per farti un esempio, nel 1970 fui coinvolta, insieme a un’amica del mio gruppo di liberazione delle donne, nel tentativo di reclutare in un sindacato le donne che lavoravano di notte come lavoratrici a contratto. Mentre camminavamo nella zona finanziaria di Londra, noi due parlavamo dei problemi che avevamo con gli uomini con cui stavamo. Al contrario, nelle grandi riunioni di donne tendevamo a parlare di sesso in modo molto più astratto. Di nuovo… non era facile. Ricordo una riunione a Londra negli anni Settanta in cui un centinaio di noi si riunì per discutere la politica della sessualità. Nessuno di noi parlava veramente di sesso, ma di concetti legati alla sessualità. Un’amica a un certo punto si alzò e disse: “andiamo al sodo”. Nessuno ha mai parlato veramente delle “basi”. È difficile tradurre l’intimità in un linguaggio più ampio… È bizzarro guardare indietro da diversi punti temporali. Ho appena scritto un libro sugli anni Settanta intitolato Daring to Hope, in cui descrivo il movimento di liberazione delle donne e le relazioni personali.  In quel decennio questioni come il modo in cui le donne venivano percepite, la violenza domestica o l’organizzazione della cura dei bambini, stavano entrando nella sfera politica. Era più difficile politicizzare i propri sentimenti. Non si cambiano necessariamente i propri desideri semplicemente perché si sente di doverlo fare. Voglio dire, il dovere è assolutamente senza speranza nel produrre cambiamento perché si escogita sempre qualche tipo di sotterfugio.
Ma forse, e questo è vero per i movimenti sociali in generale, forse il cambiamento non arriva mai in modo lineare e nel modo in cui ti aspetteresti quando inizi, ma si produce attraverso un sacco di cambiamenti all’interno della cultura, anche quelli che sembrano andare nella direzione opposta. Questo è senza dubbio successo nella vita delle persone della mia generazione.
Eravamo davvero fiduciose nel 1970, durante quella primissima conferenza che abbiamo tenuto con circa cinquecento persone; pensavamo che fosse l’inizio di qualcosa di nuovo e che avremmo fatto ciò che nessuno aveva mai fatto prima. E poi, è seguito un periodo di reazione e anche di divisione tra le femministe, ed è stato molto doloroso perché avevamo avuto una visione utopica di quello che poteva essere la politica, avevamo immaginato che avremmo evitato i brutti conflitti che esistono nella politica dominata dagli uomini, ma che, abbiamo scoperto, si possono avere anche tra le donne. Tuttavia, sono avvenute delle trasformazioni nei sentimenti e nella cultura. Anche se in Gran Bretagna le condizioni materiali delle donne più povere sono peggiorate a causa del declino delle prestazioni sociali.

Forse è per questo che ho interpretato il titolo attribuendogli un senso di delusione….

Recentemente ho ascoltato una donna alla radio parlare della sua esperienza in Egitto durante la primavera araba e di tutte quelle speranze che sono state così crudelmente deluse. Quindi, vedi… siamo state deluse, e credo di essere stata delusa nelle mie speranze di cambiamento sociale più volte nella vita. Ma poi ci sono altri segni di avanzamento e questo è davvero qualcosa. Invecchiando, però, ci si può scoraggiare un po’, quindi è bene che ci siano persone più giovani!

Quali sono le cose più importanti che hai imparato da quegli anni?

La tua domanda è complicata! Ma si imparano alcune lezioni invecchiando, giusto? Forse, proprio perché si sono viste tornare idee e speranze che si pensava fossero andate perdute, si arriva alla consapevolezza che è una buona idea non deprimersi troppo per particolari sconfitte perché si può trovare un altro modo, e possono essere ribaltate da una nuova generazione.

Come concepisci la relazione tra la sua identità di storica e studiosa professionista e il tuo attivismo politico?

Ho scritto Women, Resistance and Revolution (1972) e anche Hidden from History (1973) quando ero attiva nel movimento di liberazione delle donne. È stato molto difficile combinare le due cose, e ricordo di essermi sentita molto in colpa mentre scrivevo Hidden from History perché pensavo che avrei dovuto essere sui picchetti delle addette alle pulizie, ma allo stesso tempo, volevo davvero continuare a scrivere. In seguito, scrivere libri che si basavano maggiormente su fonti d’archivio ha richiesto ancora più tempo.  Mentre insegnavo all’Università di Manchester ho scritto una biografia di Edward Carpenter nei primi anni 2000, e poi ho fatto due lavori storici successivi Dreamers of a New Day e Rebel Crossings, principalmente su persone in circoli simili a lui.

Qualcuno ha messo in discussione i suoi ricordi? È incredibile come le persone possano conservare percezioni e ricordi diversi della stessa esperienza.

Le persone lo fanno davvero; è interessante, per esempio, leggere il libro di Michelene Wandor intitolato Once a Feminist (1990), una raccolta di resoconti davvero diversi di femministe della prima conferenza britannica di liberazione delle donne nel 1970. Il compito dello storico è spostarsi attraverso diverse prospettive su ciò che è successo.

Naturalmente, la storia può essere scritta da molte prospettive diverse.

Stranamente, in Gran Bretagna, non abbiamo avuto molti resoconti storici da attiviste che avevano fatto parte del movimento di liberazione delle donne. Ne sto leggendo uno del mio amico Jeffrey Weeks, che era coinvolto nei primi giorni della liberazione dei gay in Gran Bretagna, Between Worlds: A Queer Boy From the Valleys. Alcuni giovani oggi studiano questi movimenti al college, ma rimane difficile per loro capire i sentimenti che li sottendevano. E una delle cose che speravo, scrivendo sia La promessa di un sogno che ora Daring to Hope, era di cercare di trasmetterli.
Penso che ci sia spesso la tendenza ad avere una visione unidimensionale delle femministe del passato. Per esempio, inizialmente, quando ho cominciato a leggere la storia delle suffragette, le ho immaginate impegnate esclusivamente in quell’unica battaglia. Solo col tempo, facendo ricerche storiche su singoli individui o gruppi locali, ci siamo resi conto che sono state successivamente coinvolte nella Società delle Nazioni, nei movimenti per la pace o nel movimento socialista.
 

Capisco. Per quanto mi riguarda, ad esempio, il libro che mi ha permesso di capire meglio la condizione delle donne in Italia nel secondo dopoguerra è stato Le italiane si confessano di Gabriella Parca. Una selezione di lettere inviate da donne di diverse età alla rubrica della posta del cuore del giornale in cui lavorava l’autrice. Dalle loro preoccupazioni emerge con vividezza l’ignoranza in cui erano confinate e le conseguenze che il sesso poteva avere sulle loro vite….

È difficile elaborare la consapevolezza di persone che raramente hanno voce. Voglio dire, in ogni epoca, ci sono state alcune figure importanti, come Simone de Beauvoir o Doris Lessing, che hanno raggiunto posizioni eccezionali grazie alle loro capacità e al loro intelletto. Ma non si connettevano direttamente con noi, perché avevamo età diverse e occupavamo posizioni diverse. Certamente non si comunicavano con le donne della classe operaia in Gran Bretagna che si trovavano in circostanze ancora diversa dalla nostra. Per noi, la cosa più importante era un’istruzione che ci avrebbe permesso di trovare lavoro, di mantenerci e potenzialmente di mantenere almeno un figlio. Voglio dire, è davvero importante che le donne abbiano i mezzi per vivere in modo indipendente, e l’istruzione è fondamentale per questo. Purtroppo, è molto legata alle condizioni economiche. Giovani uomini e donne che provengono da famiglie operaie sanno quanto sia diventato difficile ottenere borse di studio. E in molti casi, anche coloro che provengono dalla classe media rinunciano agli studi per non pesare sulle loro famiglie.
 

Parlando di soggetti che non hanno voce, la Storia non ha sempre teso l’orecchio verso di loro.

Quando studiavo all’università, il tipo di storia che mi veniva insegnato riguardava principalmente, se non esclusivamente, gli uomini; non si parlava nemmeno della storia sociale che avevo imparato a scuola dove avevo un insegnante che si interessava alla storia dell’agricoltura, o al rapporto tra architettura e società. A Oxford, durante il mio primo anno, ho incontrato solo storici diplomatici che sembravano lontanissimi dalla vita quotidiana… Alla fine sono stata salvata dall’insegnamento di Richard Cobb, al Balliol College, che era stato influenzato dai nuovi approcci allo studio della Rivoluzione Francese, che si concentravano sul piccolo popolo dell’epoca attraverso l’analisi dei registri di corte e risorse di quel tipo. Fu una rivoluzione completa. Non avevamo ancora un nome per questo tipo di indagine, poi chiamata History from Below (storia dal basso). Fu Richard Cobb a mandarmi da E.P. e Dorothy Thompson, di cui parlo anche nel libro. Molte femministe sono state influenzate dal loro approccio storico agli individui che non erano governanti o membri della classe dominante. Quando abbiamo iniziato a guardare alle donne nella Storia, molte di noi avrebbero adottato un simile tipo di approccio dal basso.

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